martedì 12 agosto 2014

Un’agricoltura senza genetica è un’agricoltura senza futuro

di Antonio Saltini e con Francesco Salamini



DNA double helix with data (fonte: wwww.genome.org)La seconda tessera del mosaico su cinquant’anni di agricoltura e di ricerca agraria in Italia fissa le vicende della genetica. La propone Francesco Salamini, protagonista di una straordinaria avventura nel cuore della scienza internazionale, di cui usa il ricordo per misurare la desolazione del quadro scientifico nazionale, il quadro di un paese che, avendo rinunciato, senza alcuna remora, ad un futuro scientifico pare avere rinunciato, con cinica coerenza, al proprio avvenire civile, economico, culturale.

Da un passato onorevole, progressivamente al nulla
Il secondo dei testimoni che incontro di cinquant’anni di evoluzione dell’agricoltura italiana, per confrontarne il passato e il presente, e cercare gli indizi per comprenderne il futuro, è Francesco Salamini, senza possibilità di dubbi il più illustre genetista italiano, per dieci anni direttore, a Bergamo, della Stazione di maiscoltura dell’Istituto nazionale di cerealicoltura, per due mandati successivi, corrispondenti a anni, direttore del Laboratorio di biologia molecolare del tedesco Istituto Max Planck, una delle più prestigiosi istituzioni scientifiche del Globo. Tema della conversazione il ruolo della genetica nella parabola dell’agricoltura nazionale.
Abbiamo lasciato alle spalle la guerra vantando un’eredità non priva di lasciti rilevanti, esordisce Salamini. Quanto aveva fatto Nazareno Strampelli era stato di rilievo cospicuo: creare frumenti di produttività elevata per le condizioni italiane non era stato obiettivo agevole: la aveva realizzato, aveva vinto la Battaglia del grano. Aveva lasciato allievi che avrebbero continuato a selezionare frumenti: Forlani, Maliani, Dionigi. Pirovano aveva costituito uve per quel tempo straordinarie. Nel dopoguerra Luigi Fenaroli aggiornò rapidamente la cultura genetica nazionale rendendola capace di misurarsi con gli ibridi di mais: i nostri genetisti si cimentarono nella costituzione di una pluralità di ibridi vitrei, che avrebbero dovuto servire a fare polenta, che gli italiani non avrebbero più mangiato. L’istituto avrebbe, peraltro, informato con precisione gli agricoltori del valore obiettivo, alle latitudini diverse della Penisola, delle proposte dell’industria sementiera americana.
Negli orizzonti entro i quali l’agricoltura italiana definiva la propria nuova fisionomia le esigenze della selezione stavano, peraltro, radicalmente mutando: Strampelli aveva costituito frumenti per condizioni colturali povere, Norman Borlaug aveva diffuso sull’intero Pianeta frumenti creati con una visione nuova: frumenti che avrebbero valorizzato tutti gli inputs tecnici, congegnati, cioè, per realizzare, nella sinergia tra genetica e pratiche agronomiche, quindi disponibilità di acqua, fertilizzanti e diserbanti, le produzioni più elevate. Il mutamento di prospettive si imponeva per il frumento, si imponeva, soprattutto per il mais, per il quale era l’acqua, essenzialmente, a valorizzare le potenzialità genetiche. L’agronomia italiana avrebbe assecondato la genetica americana.
Se non abbiamo vantato, mentre l’agricoltura italiana continuava a superare i traguardi raggiunti, un centro di selezione vegetale di prestigio internazionale, la produzione di sementi non era esclusa da un quadro complessivo pervaso dal dinamismo, sottolinea Salamini: alla Casaccia Gian Tommaso Scarascia Mugnozza (qui) e (qui) costituiva il Creso, per quegli anni un successo significativo, gli agricoltori italiani riproducevano, ogni anno, 15.000 ettari di mais ibridi per conto dei produttori americani, in regioni diverse si producevano sementi di orticole e di barbabietola. La Federconsorzi filtrava la domanda nazionale di frumento da seme, di cui governava oltre il cinquanta per cento, valorizzando le creature dei costitutori italiani: chi ha voluto la fine dell’organismo ha deciso che la nostra dipendenza dal seme estero fosse completa. Oggi in Italia dominano i frumenti francesi, allora assolutamente sconosciuti.
 
Il costo della dipendenza

I termini della dipendenza nazionale dall’industria sementiera internazionale sono particolarmente visibili nel mais, sottolinea Salamini: le società statunitensi ci vendevano, una volta, le proprie costituzioni migliori, che grazie alla corrispondenza climatica della Pianura Padana con il cuore del Corn Belt esprimevano sui migliori terreni lombardi e veneti il massimo delle potenzialità: fu grazie ai mais delle società americane che in cinquant’anni la produzione media nazionale volò dai 24 quintali per ettaro ai 100, e dal leggendario Lorena della Pioneer continuò ad aggiungere, ogni anno, un quintale alla produzione media. Oggi, proibite in Italia le costituzioni create dalla manipolazione genetica, le stesse società ci vendono sementi ottenute sottraendo i nuovi geni alle ultime stars del catalogo, che mancano, palesemente del perfetto equilibrio delle piante vendute agli agricoltori americani, stars dalle ali tarpate alle quali gli agricoltori italiani, che con il mais non guadagnano più, non erogano le attenzioni, che significavano mezzi tecnici costosi, che impiegavano negli anni d’oro. Il mais che coltiviamo risulta, quindi, duplicemente, menomato, con un pregiudizio evidente per la produzione nazionale: il mais era la grande coltura per quale eravamo autosufficienti, l’unica coltura per cui producevamo quanto ci era necessario, per la duplice strada del rifiuto delle nuove costituzioni e delle minori cure colturali l’autosufficienza rischia di dissolversi. Per le orticole, un settore di grande rilievo, seppure progressivamente cedente, dell’agricoltura nazionale, la nostra dipendenza sementiera, aggiunge Salamini, è una dipendenza completa.

La genetica italiana nel confronto internazionale

Quali sono stati e quali sono attualmente, chiedo a Salamini, i rapporti tra la scienza italiana, nella sfera genetica, e quella internazionale? Il progressivo dissolversi, sul terreno produttivo, di qualunque intraprendenza genetica, ha avuto il proprio riscontro inevitabile, riconosce il mio interlocutore, nel ruolo internazionale dei genetisti italiani. Nel teatro internazionale hanno svolto un ruolo, nei decenni che abbiamo lasciato alle spalle, Salamini stesso e Scarascia Mugnozza, Salamini giungendo ad un posto nel Consiglio di uno dei più prestigiosi istituti del CGIAR, quindi all’apice della ricerca mondiale, dove venne designato, peraltro, dal Governo tedesco, non da quello italiano, Scarascia Mugnozza ha rappresentato l’Italia in una pluralità di consessi, dove lo ha incluso il Ministero degli esteri per il diritto di ogni paese che contribuisca ai fondi della ricerca internazionale di inserire propri rappresentanti negli organismi che utilizzano i medesimi fondi. Ma negli organismi in cui sia rappresentato anche degnamente, un paese dove non esiste più ricerca genetica non ha nulla, sentenzia amaro il mio interlocutore, da proporre. La presenza di un paese che non pratica la ricerca non può essere rilevante nei consessi in cui si decide la strategia della ricerca agraria per le grandi aree del Pianeta.
Quindi non esiste più, chiedo a Salamini, nelle università e negli istituti sperimentali italiani, un laboratorio che operi per la costituzione di piante più produttive per l’agricoltura nazionale? In Italia la costituzione vegetale non esiste più, conferma Francesco Salamini, nella sfera pubblica e in quella privata. Tra le due i compiti sono, peraltro, radicalmente mutati: nei laboratori pubblici oggi si indagano le condizioni preliminari, genetiche, biologiche, fitopatologiche, climatiche, per creare piante nuove, nei laboratori delle università italiane si studia la genomica, con risultati apprezzabili per il frumento, la vite, le specie fruttifere, ma dalla genomica dovrebbero promanare inputs per la costituzione, dai laboratori delle nostre venticinque università non esce nulla che possa convertirsi in una pianta nuova, siccome la costituzione in questo Paese si è dissolta. E’ vero che gli standard sono, ormai, internazionali, che solo una società multinazionale può operare, oggi, nel mondo delle sementi, e non esiste una multinazionale italiana del seme: quanto avevamo di più simile a una multinazionale era la Federconsorzi, ma se ne è voluto il naufragio.
Non esiste più, quindi, una genetica applicata italiana,e senza genetica applicata l’agricoltura italiana non potrà più crescere, non potrà superare la crisi che la attanaglia. Per produrre inputs da convertire in nuove piante venticinque università, con le relative sedi distaccate, ribadisce Salamini, non servono a nulla, e tragicamente la rassegnazione, o l’indifferenza, che hanno si sono impadronite della coscienza nazionale non possono rianimare un’agricoltura che appare, ormai, preda della paralisi, non possono accendere le energie giovanili necessarie ad affrontare le sfide imposte da questa crisi che coinvolge tutte le sfere della vita economica, quindi di quella civile. 
Francesco Salamini è convinto che l’agricoltura del futuro dovrà fondarsi su piante annuali convertite in piane poliennali, il frutto di una radicale rivoluzione biologica che consentirebbe di ridurre i costi di impianto di tutte le colture di pieno campo e amplierebbe a dismisura i periodi durante i quali le piante disporrebbero di un apparato vegetativo in grado di convertire energia solare in composti organici: un obiettivo dalle immense difficoltà, per affrontare il quale occorrerebbero energie finanziarie, scientifiche, ed autentico entusiasmo, che animasse tutti i giovani impegnati nella ricerca. Ma in un paese che pare preda di un cinico fatalismo l’entusiasmo è sentimento di cui l’anima collettiva sembra divenuta incapace, un sentimento che le ultime generazioni di italiani non hanno mai conosciuto e non saprebbero provare. Ma se non sapranno accendersi di entusiasmo, conclude, appassionandosi, il mio interlocutore, se non immagineranno risposte adeguate alla sfida che li investe direttamente, i nostri figli non avranno futuro diversa da quello di guide nei musei, un impiego onorevole in un paese che vanta i cimeli di un grande passato, che ha accettato di non avere alcun futuro.




Francesco Salamini (Castelnuovo Bocca d'Adda, 18 marzo 1939) è uno scienziato e botanico italiano.

È stato professore di Botanica e fisiologia presso la Facoltà di Agraria dell'Università di Piacenza e Direttore della Sezione Maiscultura di Bergamo dell'Istituto sperimentale per la Cerealicoltura di Roma. È stato dal 1985 al 2002 il direttore dipartimento di Miglioramento genetico e fisiologia delle piante della Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, di Colonia che è la più importante istituzione europea del settore. Tornato in Italia è coordinatore nazionale del "Piano Nazionale per la Biotecnologia Vegetale" del Ministero dell'agricoltura. È dottore honoris causa dell'Università di Bologna e Chairman del Comitato Scientifico del Parco Tecnologico Padano. Collabora come esperto scientifico alla realizzazione dell'Expo 2015 confermato poi nel Comitato scientifico. Nel 2007 è stato insignito della benemerenza civica dal sindaco di Castelnuovo Bocca d'Adda.
L'11 settembre 2009 è stato nominato dalla Giunta provinciale di Trento Presidente dell'Istituto Agrario di San Michele all'Adige.

Il 26 guigno 2014 il professore Salamini, è intervenuto come relatore, alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della cerimonia di chiusura dell'anno accademico 2013-2014 dell’Accademia dei Lincei. 

La relazione dal titolo: “Innovazione in agricoltura, sviluppo rurale e ambiente" è scaricabile dal sito del Quirinale (qui).




PS: "La ricerca senza genetisti è un'agricoltura senza futuro", l'ex uomo politico e presidente della Fondazione Diritti Genetici, Mario Capanna, a proposito di OGM...                                                   


                

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